berlusconi presidenteIl “passato che non trapassa” è sempre sintomo di un male oscuro. In qualche misura di perdita della speranza da parte del popolo che ne è affetto. Per questo la notizia del ritorno in gioco – anzi, dovremmo dire del “richiamo in gioco” – di Silvio Berlusconi, non da parte dei suoi soliti amici ma di alcuni suoi “vecchi nemici” come Romano Prodi e Carlo De Benedetti o di esponenti di quel mondo dell’informazione che dovrebbe vigilare sul buon costume nella vita pubblica, è un pessimo segnale. Foriero di guai. Parla di una grave malattia morale degli uomini che se ne fanno promotori. E di una diffusa malattia politica della società che l’accetta passivamente, come si accetta una carestia. Una classe dirigente di cinici e un popolo di smemorati non offrono di sé una bella immagine, in un mondo che già guarda a noi con diffidenza e poco rispetto.  Silvio Berlusconi è, senza dubbio, una parte della nostra storia. Una delle peggiori, in un’autobiografia della nazione piena di ombre. Le sue vicende giudiziarie parlano da sole: una catena di reati già gravi in sé, ma imperdonabili per chi fa politica, come la frode fiscale, il falso in bilancio, l’appropriazione indebita, la corruzione di testimoni e di parlamentari, contestati dalle procure di mezz’Italia, in molti casi giunti a processo e a sentenza di primo o secondo grado, spesso prescritti o decaduti per la modifica delle norme da parte dei governi da lui presieduti. In alcuni casi con i processi ancora in corso. Uno, infine, il cosiddetto “Processo Mediaset”, concluso con condanna definitiva a quattro anni per (appunto!) “frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita”.

 

Quello su cui si è incentrata l’indegna sceneggiata del “pentimento” del giudice Amedeo Franco: una vicenda vergognosa, degna di una pagina di Balzac sulla miseria umana, con un magistrato che dopo aver firmato una sentenza di condanna corre dal condannato (di potere!) a scusarsene per la lesa Maestà chiedendone il perdono e quello, come un Padrino di quart’ordine, lo registra e tiene il nastro in cassaforte per sette anni prima di sciorinarlo, post-mortem del nuovo don Abbondio, urbi et orbi. Una sordida storia di servilismo e di tracotanza da cui ci si aspetterebbe un’ondata di deprecazione per l’indecente spettacolo e invece tutto il sistema mediatico a interrogarsi pensoso sulla legittimità di quella sentenza, e sull’opportunità di rimediare magari con una nomina a senatore a vita del don Rodrigo di turno. Con in scia il trio Prodi, De Benedetti, Fontana a fare da violini di spalla.

Non so che cosa avesse in mente Romano Prodi quando alla Repubblica delle idee ha benedetto il possibile ritorno in campo del vecchio malvissuto con un adagio da parroco di campagna: “la vecchiaia porta saggezza”. O quale oscuro retropensiero ispirasse l’ex padrone di Repubblica aspirante editore del Domani ad auspicare dalle pagine del Foglio “Berlusconi al governo insieme alla sinistra”. O per quale insana caduta degli zuccheri il direttore del Corriere della sera in un’intervista (ancora sul Foglio), dopo aver ribadito la validità della distinzione tra destra e sinistra e aver posizionato il proprio giornale nella casella dei liberal-democratici di centrosinistra, si sia lanciato nella descrizione di un Silvio Berlusconi che (letterale!) “sta interpretando la parte del buon padre di famiglia” e “serve anche lui […] per un governo di responsabilità (sic) nazionale”.

O meglio, lo so benissimo. Prodi aveva in testa il Mes, e la necessità di accettarlo senza se e senza ma, e forse anche il “patto delle due volpi” con lo scambio tra lui al Quirinale e Silvio (come il cavallo di Caligola) senatore a vita. De Benedetti, da par suo, pensava all’enorme “quantità di denaro” (una quantità “mai vista” dice e immaginiamo gli occhi che brillano) in arrivo dall’Europa, e alla necessità che a Palazzo Chigi ci sia qualcuno che sa come usarli quei soldi anziché quel “vuoto assoluto” come sarebbe Giuseppe Conte, missione per cui Berlusconi sarebbe utile. Fontana, infine, da direttore di giornale “di sistema”, interpretava gli animal instinct dei propri azionisti di riferimento, che evidentemente non considerano abbastanza “fedele” l’attuale governo (la vicenda autostrade era in corso e la solidarietà di classe con i Benetton faceva sentire i propri effetti). E pretendono una maggioranza che accompagni il più amorevolmente possibile l’assalto alla diligenza che i potentati economici consolidati (tanto egoisti quanto fragili) intendono mettere in atto. Per costoro il Governissimo è diventato un’ossessione. Ad esso tutto sarebbe sacrificabile, anche naturalmente l’onore, perché tutto diventerebbe “disponibile” per chi ha considerato il privilegio un proprio diritto di nascita e di vocazione. O comunque per chi si considera ed è considerato l’establishment.

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dall'articolo di Marco Revelli  per TPI.it 

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