italiano respinto da cinaUn giornalista torna a casa, a Pechino, dove vive da nove anni. Dopo un volo senza intoppi. Ad accoglierlo, davanti al palazzo in cui abita, un checkpoint dove gli misurano la febbre. «Poi ho ricevuto la telefonata con cui una donna mi ha notificato che fino al 12 marzo non potrò uscire». Ecco la sua testimonianza.  La sensazione più strana è quella di sentirsi malato anche se non lo sei. Mi hanno appeso un foglio rosso sulla porta di casa, con la scritta in nero: «Cari vicini, sono arrivato a Pechino il 26 febbraio 2020. Per la salute di tutti, io e la mia famiglia ce ne staremo in casa fino al 12 marzo. Uniti come un sol uomo per sconfiggere l'epidemia!». E sotto ci sono degli omini di tutte le razze che sorridono su uno sfondo di grattacieli. Che poi “uniti come un sol uomo” lo direbbe lo stesso coronavirus sfregandosi le mani, se ce le avesse.  Mi hanno messo in quarantena. Vivo il paradosso di essere rinchiuso in casa per due settimane in Cina, focolaio dell'epidemia, perché provengo da un'area considerata a rischio: l'Italia. 

 La vicina di casa mi aveva accolto all'arrivo mettendo il naso fuori dall'uscio e spiegandomi che adesso anche i "kuaidi" – i pronto consegna – devono stare fuori dalla recinzione del supercondominio, una ventina di palazzine alte 18 piani. Sembrava piuttosto turbata, lei che riceve una media di cinque-sei pacchetti al giorno e si è totalmente tuffata nell'orgia cinese dell'e-commerce. Adesso le tocca fare trecento metri per andare a ritirare la merce all'unico cancello rimasto aperto, dove i solerti impiegati dell'amministrazione di condominio fermano tutti, misurano la febbre, compilano un registro di chi esce e chi entra.

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dall'articolo di  GABRIELE BATTAGLIA  per  Espresso.repubblica.it 

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